cotonfioc

Mese: novembre, 2013

Cotonfioc – Metafore belliche

Sono stato Mosca deserta per Napoleone, per essere incendiato solo quando l’invasione era giunta. Sono stato un ferito nella giungla vietnamita che sa che lamentarsi regalerà un colpo facile al cecchino nascosto nel verde. Sono stato la tregua di natale del 1914, anche se gli eserciti non hanno giocato a calcio. E sono stato una guerra fredda, mai dichiarata, mai esplosa, tra quello che voglio e il male che non volevo fare. Sono stato gonfio di metafore belliche fuori luogo e pieno di un tragico esagerato. Ho fatto un disco, è bello, ho trovato il modo di voler bene alle parole banali e alla voce imprecisa che ci ho cantato sopra. Di lunedì, con quattro birre e mezza bottiglia di rosso in corpo mi sono guardato nello specchio del bagno mentre Olbia affoga sotto il diluvio universale: sto esattamente come mi vedo.

Quindi bene.

 

 

Testa che gocciola (rubrica onirica) #9

Hai deciso di farmi vedere un film. Io non voglio vederlo perché ricordo che ad un certo punto ci saranno due persone con la testa di cavallo che scopano. Ho in mente la scena così bene che praticamente la vedo e la cosa mi terrorizza. Lo schermo manda una luce verde intensa e io sto male e sto cercando una scusa per andarmene. Non posso andarmene, invece, perché stanno facendo dei lavori che bloccano la tua porta. Attraverso la porta un muratore mi chiede un po’ d’acqua. Mentre la cerco trovo dei soldi e me li metto in tasca. Quando torno da te sullo schermo c’è un tizio che ha la faccia come se due pinze gli tirassero all’indietro tutta la pelle. Guarda disgustato qualcosa che non possiamo vedere. “siete sicuri di essere umani?” chiede, ghignando.

Beh, lo siete?

Valle con sassi – Ancora

Ieri ho dimenticato di nuovo le chiavi di casa. Ho parcheggiato in una cunetta e ho cercato una comodità impossibile sui sedili apparentemente spaziosi della polo, ancora. Alle sei il freddo mi ha svegliato in tempo perché fossi sorpreso dal giallo fluorescente di una tutina da corsa dietro i vetri appannati. Qualche ora dopo uno spasmo violento di pianto mi ha fermato mentre appendevo al filo del bucato una maglietta di mio fratellino. Lontano il vicino parlava con qualcuno. Le lenzuola mi nascondevano e ho rilassato il diaframma e ho controllato il respiro e ne sono venuto fuori.

Sono nella barca di mio zio, è mattina e abbiamo dormito male per il caldo e per il movimento delle onde. Solo io e mio fratello siamo svegli. Lui sta pescando e io guardo le vespe arrivare dal mare aperto e prendere un verme con le loro mandibole terrificanti e portarlo via in volo verso il niente. Mio fratello non si volta e io non riesco a parlare perché tutto intorno c’è un nulla che è completamente folle, e magari l’inferno è qualcosa che galleggia all’alba, la sete, i vermi, le vespe, il mal di mare e qualcosa di orrendo che può succedere ma non è il momento, ancora.

Sto guardando una schiena sulla quale è tatuata un’ancora. Sapendo che è da stupidi trascurare un presagio mi copro senza farmi vedere l’occhio destro cercando di guardare con la poivedenza. Mi arriva soltanto l’immagine precisa di dove erano le mie chiavi ieri notte: sotto il letto.

 

Cerume (sulla musica, in ritardo) – La quiete/La fine non è la fine

La gente che valeva in qualche modo ascoltava questo disco e io non capivo un cazzo di musica. Dove cazzo andavano così serrati, sicuri, uniti. Sembravano immuni all’egoismo, alla spocchia e molti non bevevano e non fumavano neanche. Avevo conosciuto una ragazza e le avevo fatto una battuta stupida sul fatto che non mangiasse carne della quale poi mi sono vantato per anni (le avevo consigliato di farlo invece per diventare più forte e più vicina al Grande Spirito). Nella mia città c’era un gruppo che faceva le cover dei Sottopressione. Le loro canzoni valevano in qualche modo di più di tutta la roba pseudo alternative che noi cercavamo di far derivare dai Marlene Kuntz con un ritardo di quasi dieci anni. Il cantante aveva la barba e camminava avanti e indietro con il microfono stretto nel pugno alzato nella posa di superman.  Mentre bevevo in disparte birre da supermercato ascoltando gli aut aut dei metallari che cercavo di emulare mentre da una panda bianca suonava a ripetizione Breaking The Law dei Judas Priest. Ancora oggi ho paura di parlare di questo disco sentendomi inadeguato, in ritardo, mai abbastanza devoto alla buona battaglia. Ho visto i La Quiete dal vivo nel 2011 all’antimtvday all’xm24, a Bologna. Io e la persona con la quale sono andato eravamo terrorizzati dal fatto di rimanere senza alcool a proteggerci l’uno dall’altro. Del concerto non mi ricordo praticamente nulla a parte che ad un certo punto siamo tornati a casa e abbiamo mangiato qualcosa e probabilmente in questo lasso di tempo i La Quiete stavano suonando veramente, cambiando probabilmente chi gli stava davanti e ricaricando le batterie a tutte le persone meravigliose che tirano su eventi del genere senza l’aiuto di imbecilli teorici di scene provinciali come me,

Questo disco è gigantesco e disperato ma non c’è bisogno che lo dica uno che durante l’adolescenza aveva come metro del mondo e come immagine di rivolta quel gonfio borioso di Cristiano Godano.

Questo disco è cavallo pazzo (la figura di cristo secondo Sherman Alexie) a Little Big Horn mentre controvoglia sei dalla parte di Custer.

Questo disco sono i miliardi di frangette che hanno scritto e detto cose di insospettabile profondità minando per sempre l’idea di poter capire una persona senza conoscerla.

Questo disco dura ventuno minuti durante i quali si può probabilmente lasciare una persona, ucciderla con un cucchiaino o farla venire.

Tutte queste cose schierate insieme in una parata militare insieme al senso di colpa e la certezza di aver comunque sbagliato tutto.